Berlino- Benessere psicologico

Benessere psicologico a Berlino – giorno 3

Di Fabrizio Tenerelli

 

Berlino – Il seminario sta per concludersi.

L’ultimo giorno è dedicato al ripasso di quanto appreso nei due precedenti, ma anche alle verifiche sul campo. Si inizia con un esercizio di respirazione, finalizzato a ritrovare quella connessione tra mente e corpo, che in caso di stress è destinata a disperdersi. Basta chiudere gli occhi e respirare per ritornare nel “qui e ora”. Sembra scontato, ma solitamente non si impara a nuotare, quando si sta affogando e questo esercizio è un po’ quella scialuppa di salvataggio a cui aggrapparci nei momenti più difficili. Ci sediamo e dobbiamo puntare i piedi al suolo, sentire lo schienale sul nostro dorso. Quindi, dobbiamo concentrare l’attenzione su un oggetto della stanza e sentire quale reazione si verifica in specifiche aree del nostro corpo, che possono variare da persona a persona. Così riusciamo a connetterci con l’ambiente circostante e con noi stessi.

Juliana e Friederike spiegano l’importanza di acquisire una terminologia appropriata. Si parte dal termine “craft”, che significa mestiere, ma non nel senso di “job”. Craft è la tecnica “artigianale” con cui noi lavoriamo. Nel sottolineare che “una buona etica mantiene sani” e che il solo pensiero di aver commesso qualcosa di sbagliato contribuisce a scatenare lo stress, le due relatrici ci invitano a ripassare le basi del peer-support, ribadendo che si tratta di un semplice “supporto tra colleghi”, da non confondere con la “psicoterapia”.

Il nostro compito, dunque, è di incoraggiare l’interlocutore a parlare, per aumentare la sua presa di coscienza e dare un senso di essere capito e accettato. Dobbiamo contribuire a costruire relazioni significative; ridurre la vergogna e il senso di colpa, aumentando l’auto accettazione. Il principio è che più se ne parla e più il senso di colpa e la vergogna tendono a diminuire, la loro energia si disperde e si inizia a respirare in maniera diversa.

Quando si applicano i principi del peer-support? Ad esempio, se un giornalista che sta attraversando un periodo di burnout, medita di licenziarsi. Il nostro compito è di ascoltare, senza mai drammatizzare, banalizzare e soprattutto elaborare diagnosi. Ad esempio, possiamo rispondere parafrasando, ovvero ripetendo quanto ci è stato detto con parole diverse; dobbiamo saper ascoltare, senza interrompere.

C’è anche un problema di etica, che consiste nel capire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Dobbiamo essere neutrali, perché come giornalisti dobbiamo osservare la storia, anche se le nostre esperienze, il linguaggio che usiamo e altri fattori, possono incidere sulla nostra per azione su ciò che raccontiamo.

 

 

Berlino- Benessere psicologico

 

 

Un altro termine fondamentale da capire è “boundary”, che significa: confine, barriera tra due persone. Il termine, però, può avere accezioni diverse a seconda del contesto: ad esempio tra due amici o in una relazione professionale. E qui sta il paradosso: con le “boundaries” poni un limite, una linea che però ti dà anche la libertà di capire quali sono i ruoli di ciascuno. Quindi, è la chiarezza del nostro ruolo, quella linea di demarcazione tra il “fare” e il “non fare”.

Un altro paradosso, riguarda il nostro rapporto con la persona da intervistare. Sembra strano, ma nel momento in cui siamo chiari ed eventualmente poniamo delle “barriere”, la persona sarà più propensa a essere intervistata. Ma in cosa consistono queste barriere? Nell’essere trasparenti con i nostri obiettivi e nel capire quali problemi potrebbero sorgere con il soggetto da intervistare.

Un’altra attività che serve a mettere a frutto tutto ciò che abbiamo imparato nel corso del seminario, consiste nel dividerci in piccoli gruppi e scegliere un argomento da esporre ai nostri colleghi. Dobbiamo raccontare quando è capitato di trovarci di fronte a delle barriere nella nostra carriera professionale – ad esempio con persone che rivestono ruoli di potere –  e come abbiamo gestito la situazione.

Nel pomeriggio, in ultimo, abbiamo messo in pratica il “peer-support”. Un collega raccontava la propria storia, davanti ad altri tre che ascoltavano, intervenendo con domande a tema (senza mai giudicare), ma cercando di motivare. Friederike, nel ruolo di psicologa, aveva invece il compito di guidarci in questa nuova avventura.