Benessere psicologico a Berlino – giorno 2
Di Fabrizio Tenerelli
Berlino – La giornata di martedì 4 febbraio si apre con un esercizio che potremmo definire di propriocezione.
La propriocezione è capacità del corpo di percepire la posizione, il movimento e l’orientamento delle proprie parti senza bisogno della vista. Mettiamo le nostre sedie a cerchio e cominciamo a girare in piedi in mezzo alla stanza. Poi, dobbiamo chiudere gli occhi e sperimentare i tre livelli di percezione: fisico, emozionale e mentale, spiegando come percepiamo il nostro corpo: pesante, leggero per portare un esempio oppure lento e veloce. Possiamo anche abbinare dei colori, qualora vengano in mente.
Juliana e Friederike spiegano, che dietro ogni emozione c’è un bisogno, che vuole comunicare qualcosa. Dobbiamo così calarci nel nostro interno. Conoscere il proprio bisogno, capirlo, significa anche poterlo gestire. Inoltre, di fronte a dei problemi emozionali, chiedere aiuto è un segno di resilienza non di debolezza. Un trauma può essere provocato da un episodio particolarmente potente e devastante, ma anche da una sommatoria di tanti piccoli episodi. L’esempio è quello della zanzara, che punge tutti i giorni nello stesso punto e, alla fine, scatena un’infezione. Alcune caratteristiche, inoltre, possono rappresentare un tratto distintivo del soggetto oppure uno stato transitorio del suo modo di essere.
Nel corso del seminario abbiamo appreso i “tool” e le “skill” necessari per imparare a intervistare chi ha subito un trauma. Si parla delle cosiddette “vulnerable sources”. Viene da sé che l’obiettivo più importante, in questo caso, è evitare di provocare ulteriori danni alla persona. Il giornalismo, infatti, può rivelarsi intrusivo e abbattere le barriere di chi abbiamo di fronte. Il trauma, inoltre, può cambiare il modo di vedere il mondo ed ha ricadute oltre che fisiche, anche psichiche e sociali. Una donna che ha subito violenza, ad esempio, potrebbe cambiare il proprio approccio con gli uomini; una persona rapinata potrebbe sviluppare un problema di ansia e magari non girare più tranquilla di notte. Ma le ricadute possono essere anche fisiche, come nel caso di una turbolenza in aereo, capace di scatenare un attacco di panico, con la sensazione di soffocamento. Un banale profumo è in grado di provocare reazioni involontarie. Una persona che è stata rapita, difficilmente accetterà di essere intervistata in un luogo piccolo e chiuso, ma preferirà un ambiente aperto. Il trauma, dunque, può interrompere le connessioni umane.
Nel corso del seminario si parla di modello bio-psico-sociale. Come comportarsi, allora? Bisogna evitare sorprese, informare il nostro interlocutore su chi siamo e cosa stiamo facendo, in modo che possa decidere di cosa parlare. Vogliamo anche rendere chiari e trasparenti i nostri obiettivi.
Altro discorso è: come comportarci nel caso in cui l’intervistato mostri difficoltà emotive? Ad esempio, se scoppia a piangere. Interrompere l’intervista potrebbe mettere in imbarazzo la persona e allora, bisogna avere la capacità di proseguire, chiedendo se magari preferisce prendersi una pausa. Per sentire le proprie emozioni, e di riflesso quelle degli altri, è necessario sviluppare alcune capacità di coordinazione, che ci permettono di stare nel “qui ed ora”.
Essere presenti è fondamentale. Ecco, allora, un esercizio. Ci si divide in coppie e si inizia a contare, in modo alternato. Tocco la spalla del partner e dico uno, lui tocca la mia e dice due, poi io dico tre e, alla fine, si inizia daccapo. Dopo qualche giro: anziché dire uno, si battono le mani; poi, il numero due viene sostituito dallo schioccare delle dita e, infine, per il numero tre si fa un saltino. L’esercizio è meno semplice di quanto possa sembrare. Quali capacità si sviluppano: sicuramente la presenza ma anche la collaborazione e lo stare in contatto con l’altra persona.
Dalle strategie per intervistare chi ha subito un trauma, si passa al “peer support”, termine inglese che indica il supporto tra pari. Friederike spiega, che non sempre psicologi o counselor sono così efficaci come il supporto di un collega. Come avviene, quindi, il supporto: si inizia con l’ascoltare l’altra persona, aiutarla in un compito. Poi, si danno consigli o informazioni utili, che possano essere di aiuto.
Ascoltare è la parola chiave. Per questo motivo, abbiamo praticato un esercizio di “active listening”. Anche in questo caso ci siamo divisi in coppie. Obiettivo: ascoltare il partner per due minuti, riassumere (in un minuto) ciò che ha detto e invertire i ruoli. Nel dare supporto, però, dobbiamo ricordarci che non siamo psicologi e quindi possiamo dire soltanto ciò che vediamo – tipo: sei stanco oppure altri aspetti intuitivi – senza emettere diagnosi. Se poi una persona ha bisogno di un aiuto più profondo, è necessario indirizzarla verso un supporto mentale.
Sapersi spiegare, ma anche capire le indicazioni che vengono fornite, è fondamentale nel peer support. Ed ecco un altro “gioco” a coppie. Ci si siede schiena contro schiena. Al primo partner viene consegnato un disegno, al secondo un foglio con una penna. Il primo deve dare indicazioni su come realizzare quel disegno e alla fine si vede la corrispondenza tra la nostra spiegazione e l’elaborato del partner. C’è anche una seconda versione in cui il partner che deve disegnare, ascoltando le nostre indicazioni, può anche chiedere delucidazioni. Anche questo è tutt’altro che un gioco banale, che insegna: da una parte a capire, dall’altra a spiegare a chi abbiamo di fronte. Le caratteristiche richieste nel peer support sono: ascoltare, non interrompere, fare domande, non giudicare, incoraggiare, dare consigli, essere altruista, dare sul giusto peso e inquadrare i fatti nella giusta prospettiva.