Benessere psicologico a Berlino – giorno 1
Di Fabrizio Tenerelli
Berlino – Le dinamiche di attacco e fuga; il trauma e le conseguenze del trauma, ma anche la frammentazione dei ricordi, le “coping strategies” (strategie di adattamento) come incentivo alla resilienza e l’approccio del giornalista nei territori di guerra o colpiti da catastrofi.
E’ stato questo il filo conduttore dellanell’ambito dei progetti Erasmus dell’ODG Liguria, aperto a 15 giornalisti liguri. Formatrici sono la giornalista Juliana Ruhfus – responsabile del Dart Center for Journalism and Trauma Europe (https://dartcenter.org/), partner del progetto Erasmus +, che è una sezione del Dart Center for Journalism and Trauma, organizzazione globale affiliata alla Columbia University – e la psicologa Friederike Engst.
Il corso di formazione ha un duplice obiettivo: da una parte mettere il giornalista nelle condizioni di rapportarsi con chi ha subito un trauma di consistenza rilevante; dall’altro aiutare i propri colleghi a preservare la propria salute mentale, aiutando a esprimere le proprie emozioni.
Innanzitutto viene posto l’accento sulla definizione di trauma, una parola di cui oggi si fa largo uso, ma anche in maniera impropria. La sfuriata del professore a scuola o del nostro datore di lavoro e altri eventi che possono sembrare spiacevoli nel percorso di vita di una persona vengono spesso scambiati come traumatici, ma così non è. Il vero trauma, quello di proporzioni sicuramente maggiori, provoca uno choc nella mente e nel corpo. Un trauma che di riflesso colpisce anche chi opera nel campo dell’informazione e che ha visto cose terribili.
Lo studio del metodo di interazione del giornalista con chi ha vissuto catastrofi o calamità naturali è iniziato tra i ventidue e i venticinque anni fa. Ci sono persone, che hanno riportato traumi non solo fisici, ma anche psicologici. Neppure chi opera nell’informazione viene risparmiato. Ascoltando storie di sofferenza o entrando in contatto con contenuti grafici “forti”, è possibile subire ricadute psicologiche. Si tratta di uno stress post traumatico, che va gestito. Nel corso del workshop viene portato l’esempio del conflitto in Siria e delle immagini dei rifugiati nei centro di accoglienza; oppure il caso del respingimento dei migranti alla frontiera con la Grecia. Come deve comportarsi, in questi casi, il giornalista? Deve lavorare: filmare, documentare, ma senza dimenticare la propria condizione di essere umano, preservando la propria salute mentale.
Juliana, che oggi vive a Londra, racconta la propria esperienza come giornalista, in Kenya e in Tanzania. Friederike, invece, cresciuta nella Germania dell’Est è psicoterapeuta specializzata nella gestione dei traumi. Cosa abbiamo bisogno per sentirci più a nostro agio e stare bene? Ognuno dà la propria risposta: fiducia, non giudizio, empatia, umanità, calma, reale interesse, ascolto, rispetto, comprensione, tempo. Viene concentrata l’attenzione sulla necessità di creare una rete tra colleghi, perché il supporto psicologico è un beneficio per chi lo riceve, ma anche per chi lo dà. E’ a questo punto che ci viene sottolineata l’importanza di distinguere bene il trauma dalle conseguenze del trauma e di usare il termine con precisione.
E adesso un gioco per mettere a dura prova le nostre capacità di attesa di un “evento”. Friederike prende un palloncino di quelli gonfiabili, noi dobbiamo chiudere gli occhi. Sappiamo che lo farà esplodere con uno spillo, in un momento che noi non conosciamo, quindi a sorpresa. Si sviluppa così una situazione di stress e ognuno deve dimostrare come reagisce, come si comporta, quali strategie di adattamento usa. Le cosiddette manovre di “self soothing” per auto-calmarsi. Alla fine, il pallone lo farà scoppiare, ma soltanto dopo che abbiamo riaperto gli occhi.
Ci viene spiegato che la sofferenza è la conseguenza di voler evitare il dolore. I bambini, ad esempio, quando soffrono mostrano la loro ferita, come una richiesta di aiuto. Se la nascondiamo, fa anc
ora più male. E’ un po’ come voler a tutti i costi spingere il pallone nell’acqua: sprecheremo tanta energia, ma questo continuerà a saltare fuori. L’unica soluzione è quella di passare attraverso le nostre emozioni.
Vengono così introdotti due argomenti molto importanti, che saranno il leit motiv dei tre giorni di seminario: il Post Traumatic Stress Disorder (Ptsd) e il “burnout”. Persone che hanno subito un trauma, in grado di provocare uno stress così forte, si sentono come se dovessero esplodere da un momento all’altro. Noi, in questo caso, dobbiamo utilizzare le “coping strategies”, che ci consentono di superare i momenti più difficili. Emerge così che le nostre paure risalgono all’infanzia ed emergono sotto forma di emozioni, nel corso della nostra vita, ad esempio quando ci sentiamo rimproverati. Analizzando il trauma, ci viene mostrata la fotografia dell’esplosione di un aereo della pattuglia acrobatica. Le persone vengono immortalate nel momento successivo al devastante impatto con il suolo: c’è chi scappa, chi resta fermo o si aggrappa al vicino e chi si muove in segno di sfida. Ci viene spiegato come funziona il nostro cervello, il sistema simpatico e quello parasimpatico. Impariamo la differenza tra hyper-arousal e ipo-arousal: i due stati di attivazione del sistema nervoso, che avvengono in relazione alla risposta allo stress o a condizioni psicologiche come il disturbo da stress post-traumatico.
Hyper-arousal (iper-arousal o iperattivazione)
È uno stato di iperattivazione del sistema nervoso simpatico, caratterizzato da:
•Aumento dell’ansia e dell’agitazione
•Ipersensibilità agli stimoli (iper-vigilanza)
•Difficoltà a rilassarsi
•Insonnia
•Aumento della frequenza cardiaca e della tensione muscolare
•Reazioni esagerate agli stimoli
Ipo-arousal (ipoattivazione)
È uno stato di bassa attivazione del sistema nervoso, legato alla dissociazione e alla risposta di congelamento (freeze), con sintomi come:
•Stanchezza estrema e letargia
•Difficoltà di concentrazione
•Distacco emotivo o dissociazione
•Sensazione di torpore o “vuoto”
•Ridotta risposta agli stimoli
Si verifica in condizioni come la depressione, il trauma o situazioni di shock. L’equilibrio tra hyper-arousal e ipo-arousal è essenziale per il benessere psicofisico. Spesso avviene una disconnessione tra cervello, mente e fisico ed è per questo motivo, che quando subiamo un incidente subito non sentiamo dolore. Accade che il corpo avverte il dolore, ma non la mente. Tornando alla foto del disastro aereo e al fatto che alcuni degli spettatori restano impietriti, balza subito all’attenzione il paragone con gli animali che nel momento del pericolo si fingono morti.
Si passa ora ad analizzare i meccanismi dello stress post traumatico, legati al binomio guilty-shame, colpevolezza e vergogna. Esiste nel nostro cervello, nell’amigdala, un “pulsante” di allarme, che quando viene premuto dà una risposta molto veloce a una situazione di minaccia. Ad esempio, quando mi pare di scorgere un serpente velenoso e mi sposto subito indietro. Questo è il meccanismo di attacco e fuga. E’ una sorta di memoria emotiva, che risiede nell’ippocampo e che ricorda come comportarci. I nostri ricordi, che possono provenire da odori, rumori e immagini, vanno integrati e gestiti.
Da qui il concetto di memoria frammentata. Chi ha subito un evento traumatico può ricordare dei dettagli, ma non l’intera storia; a causa della dissociazione perde anche la misura del tempo: cinque minuti possono sembrare due ore o viceversa. La memoria è combinata al sentimento di paura. Può, infatti, capitare che chi ha subito un incidente, nel momento in cui torna a guidare, si senta sempre in allarme, nel timore che si possa ripetersi quell’incidente. Un po’ come accade con l’attacco di panico, che è attivato dal ricordo di un trauma. Questo ci insegna che durante un’intervista possiamo avere una risposta traumatica da parte del nostro interlocutore, che non ci aspettavamo. Perché un evento traumatico può cambiare la nostra percezione e intaccare l’auto controllo.
Si fa cenno anche alle cosiddette “costellazioni familiari”: il metodo di esplorazione psicologica e terapeutica ideato da Bert Hellinger, basato sull’idea che problemi personali possano derivare da dinamiche irrisolte nella famiglia. Viene, quindi, introdotto il concetto di empatia e le nostre due relatrici ci propongono un esperimento molto semplice quello di immaginare un limone e tenerlo nelle mani. E’ soffice? E’ duro? Di che colore è: verde o giallo? Dobbiamo descriverlo con più dettagli possibile, immaginare di metterlo sul tavolo di fronte a noi, farlo rotolare, tagliarlo a pezzettini, spremerli e poi prenderne un pezzo e schiacciarlo tra i denti. La sensazione che sentiamo ci insegna cosa significa empatia, provare ciò che provano gli altri. Così come gli investigatori, che sentono storie terribili, spesso di abusi, anche i giornalisti sono esposti a questo tipo di racconti, che possono avere effetto su di noi. Dobbiamo imparare a gestire queste emozioni-reazioni, che sono normali, perché siamo essere umani empatici.
Tutto si fonda sul concetto, che il trauma è contagioso. In che senso? Nel momento in cui, ad esempio, si verifica un attentato in una stazione, avremo paura di entrare nelle stazioni. I sintomi dello stress post traumatico si possono avvertire anche senza aver trascorso quello specifico evento (trauma diretto) ed è per questo motivo, che anche un giornalista può esserne vittima. Alcuni sintomi sono legati all’iper eccitazione, ai flashback. La persona che ne soffre, può ad esempio voler evitare discussioni che riportino la mente a quell’evento e si sviluppa una specifica fobia. Si può parlare di Ptsd, se i sintomi persistono a partire dal terzo e fino al sesto mese dall’evento.
I giornalisti sono i primi a rispondere alle persone, che hanno subito una tragedia e se l’empatia, da una parte, è qualcosa di umano; dall’altra bisogna proteggersi. Viene utilizzato l’esempio della giacca, che va indossata in queste circostanze. L’auto-identificazione nelle storie che il giornalista racconta, può alla lunga portare al rischio di burnout. Bisogna così imparare a staccare la vita lavorativa da quella personale, evitare taluni comportamenti (come leggere messaggi di odio) o discussioni, quando siamo stanchi o arrabbiati, per evitare di abbassare le nostre difese.
NOTA: questo è un “work in progress”. Nei prossimi giorni pubblicheremo il racconto del giorno 2.